Nelle scorse settimane abbiamo guardato il lievito in faccia. Lo abbiamo sciolto, spezzato, osservato agire dentro lāimpasto, analizzato il suo rapporto con lāamido, seguito nel forno e capito che, senza di lui, la farina resta solo polvere cruda.
Eppure, intorno a questi 25 grammi si ĆØ costruita una mitologia rumorosa: il lievito gonfia la pancia, fa male, ĆØ innaturale, lievita nello stomaco, ĆØ meglio senza, āio ne uso solo una puntinaā⦠Accuse e mezze veritĆ che si sono sedimentate tra pizzaioli e amatori, passando di mano in mano come leggende metropolitane.
Questa settimana entriamo nella parte più spinosa: quella delle dicerie. Ci chiederemo perchĆ© si ĆØ diffuso tanto sospetto attorno al lievito e proveremo a distinguere ciò che ĆØ fondato da ciò che, semplicemente, non lo ĆØ. Non per fare i paladini del lievito, ma per restituirgli il posto che gli spetta: quello di un alleato, non di un capro espiatorio e partiremo dalla frase più abusata di tutte: āIl lievito mi gonfia la pancia.ā

Tra le frasi più frequenti che si sentono a proposito del lievito compresso cāĆØ questa: āIl lievito fa male, mi gonfia la panciaā. Ć unāaccusa ormai entrata nel linguaggio comune, ma che raramente trova fondamento nella realtĆ dei processi fermentativi.
Per capire come stanno davvero le cose, bisogna partire da un concetto fondamentale: non ĆØ il lievito in sĆ© a āgonfiareā, ma sono gli amidi della farina ad essere naturalmente complessi e āpesantiā.
Il problema quindi non ĆØ mai la presenza del lievito, semmai la sua assenza. O meglio: una quantitĆ insufficiente di lievito, combinata con tempi di fermentazione troppo brevi, porta a impasti che non maturano, non si scompongono, non si trasformano.
Perché il lievito, in realtà , è un grande alleato della digestione.
Durante la fermentazione, il lievito non si limita a gonfiare lāimpasto come un palloncino. Consuma gli zuccheri semplici ā come glucosio e maltosio ā che derivano dalla scomposizione dellāamido, operata dagli enzimi naturalmente presenti nella farina, in particolare le amilasi. Ć un lavoro di squadra invisibile: gli enzimi predigeriscono lāamido, il lievito lo trasforma. Questo processo, che avviene prima ancora che lāimpasto entri nel nostro stomaco, ĆØ una vera e propria forma di pre-digestione. Ecco perchĆ©, quando il lievito ha fatto bene il suo mestiere, il nostro corpo deve fare molto meno sforzo dopo. Se un impasto ĆØ ben maturato, grazie alla combinazione lievito e tempo, risulta più leggero, più digeribile e paradossalmente meno āgonfianteā.
Il gonfiore intestinale nella maggior parte dei casi, non ĆØ colpa del lievito, ma di una quantitĆ esagerata di impasto che stiamo per ingerire e che non ha avuto il tempo di maturare e compiersi. Quando un impasto ĆØ ancora ricco di zuccheri complessi e amidi non trasformati, chiederĆ allo stomaco e allāintestino di fare il lavoro che avrebbe dovuto fare il lievito e questo lavoro richiede acqua proprio quella che bevete di notte dopo la pizza.
Ma attenzione: a volte non è nemmeno una questione di fermentazione, è proprio la pizza in sé il problema. Una pizza tonda classica contiene in media 250 grammi di impasto, più 100 grammi di mozzarella, 100 grammi di pomodoro e almeno 100 grammi di ingredienti vari. Totale? Mezzo chilo di roba nello stomaco. E togli pure un 10% di umidità in cottura, rimane comunque una bomba da digerire.
Provate a farvi 250 grammi di spaghetti con 250 grammi di sugo e digeriteli o fatevi unāabbuffata con mezzo chilo di carne. Non bere dopo ĆØ impossibile, ma spesso al cuoco non diamo mai la colpa della nottata insonne.



E la cottura? Anche lƬ, la pizza ĆØ borderline, spesso cotta al limite, ancora umida dentro e come abbiamo visto nella scorsa newsletter, la cottura ĆØ la fase decisiva per la trasformazione dellāamido: solo col calore lāamido gelatinizza e diventa realmente digeribile.
Ecco perché un panino, cotto per 20 minuti in forno, lo digerite meglio di una pizza cotta in 90 secondi. Ecco perché la pizza ad alta idratazione la digerite meglio di una pizza napoletana: viene semplicemente cotta più a lungo.
Quindi no, non ĆØ il lievito il problema. Ć tutto il resto che, se non fatto bene, ci lascia una pizza sullo stomaco. Letteralmente. E a volte, metterne poco e non dargli tempo di fermentare ĆØ peggio che metterne la giusta dose e lasciarlo fare il suo lavoro in pace. E se vi state chiedendo: āma il lievito resta nellāimpasto anche dopo la cottura?ā La risposta ĆØ no.
Il lievito di birra compresso, cioĆØ il Saccharomyces cerevisiae, smette di vivere giĆ intorno ai 50°C: oltre questa temperatura, le cellule iniziano a morire progressivamente, e intorno ai 60ā65°C sono praticamente tutte inattive. Durante la cottura, quando la temperatura interna del prodotto supera abbondantemente i 90°C, non rimane alcuna traccia di lievito vivo.
Quindi no, il lievito non ālievita nello stomacoā. Non può. Ć morto giĆ da un pezzo. Quel che resta dopo la cottura sono i suoi prodotti: aromi, struttura, volume⦠e un impasto fermentato e cotto.
La buona panificazione, quindi, non è questione di demonizzare il lievito, ma di conoscerlo, rispettarlo e usarlo con intelligenza. Perché il lievito, se gli diamo modo di agire, non ci gonfia: ci aiuta a digerire meglio.
Da qui lāerrore più comune: quello di voler dimostrare al mondo che āmeno ĆØ meglioā. Quanti ne conosco che si vantano di usare āsolo un grammo su trenta chili di farinaā. Oppure, peggio ancora, quelli che scrivono āsolo lo 0,000002% di lievitoā, come se stessero panificando con lāomeopatia. A quel punto, davvero, fate prima a non metterlo affatto.
E non ĆØ solo questione di proporzioni: spesso, queste frasi arrivano da chi usa farine di forza, tiene gli impasti in frigorifero a 1°C, forma le palline subito dopo lāimpasto cacciandole appunto in frigo e poi dice la frase magica
āle faccio lievitare 48 oreā
Da dove arriva questo mito delle 48 ore, tanto decantato soprattutto nelle pizzerie del Nord Italia? Ho girato tanto le pizzerie del Sud, e lƬ nessuno si vanta delle 48 ore ā e hanno ragione (ricordatevi questa distinzione territoriale che poi ci tornerĆ utile).
Le 48 ore non nascono da una ricerca di digeribilitĆ o sapore, ma da una necessitĆ operativa. Difatti dopo 48 ore, quelle palline sembrano appena fatte. Lievitazione? Maturazione? Neanche partita o al minimo storico. Troppo poco lievito, troppo freddo, troppa forza nella farina.
Anche perché diciamolo: fare un impasto al mattino per cuocerlo la sera, oppure prepararlo oggi per domani, usando una farina non troppo forte e una quantità di lievito adeguata (quindi mediamente più alta), funziona benissimo. Hai un impasto estensibile, che lievita, che matura, che digeriamo con piacere, lievitazione, maturazione, digestione, tutto quello che finisce in -one lo ottieni lo stesso, senza dover aspettare due giorni.
Il punto ĆØ un altro.
Se con questāultimo metodo mi avanzano delle palline, non arrivano a domani. Collassano, cedono, si appiccicano, la maglia si rompe, non colorano in forno⦠tutte queste cose si riassumo in unāunica parola che pronuncia il pizzaiolo ovvero una imprecazione colorita.
Le palline le devo buttare o riciclare in altro ā il che non ĆØ sempre comodo.
E allora ecco il motivo vero delle ā48 oreā: non la digeribilitĆ ma la performance. Un impasto pensato per durare giorni, a bassa fermentazione, con farina forte e poco lievito, ti fa risparmiare. Non butti via niente, lavori tranquillo, le palline avanzate reggono anche 72 o 96 ore (e forse sono digeribili).
Ma attenzione: la performance non ha nulla a che fare con la digeribilitĆ . Sono due mondi diversi dove uno guarda al margine operativo, lāaltro al benessere di chi mangia e raramente le due cose si incontrano. Ed ĆØ qui che dobbiamo essere onesti: lāimpasto tecnico e duraturo ĆØ un vantaggio gestionale, non un valore nutrizionale. Se lo chiamiamo āpiù digeribileā, stiamo solo facendo marketing.
Quindi riappropriamoci (almeno concettualmente) del buon vecchio metodo della nonna. Quello in cui la pizza si impastava in giornata e si mangiava alla sera. Pochi fronzoli, ma tecnica solida: farina debole, un bel poā di lievito, tempo sufficiente, cottura ben fatta. E, guarda caso, quella pizza era buona, leggera e la notte si dormiva (ovvio che se ne mangi una teglia intera con prosciutto funghi würstel carciofi olive e due fette di crudo, alla notte bevi).
Un impasto che lievita in 2ā3 ore non ĆØ sbagliato. Ć una necessitĆ , a volte. Lāimportante ĆØ che sia ben fatto, ben cotto, digeribile e per esserlo, deve permettere al lievito di fare il suo lavoro, altrimenti, ci resta solo un pallone di amidi indigeriti⦠e alla farina manca quel fermento che trasforma un impasto qualunque in un piacere a tavola ā e, diciamolo, anche per dormire meglio.
Ma fermi tutti: questo non vuol dire che adesso vanno bene solo le lievitazioni brevi. Vuol dire che ogni lievitazione va bene, purché sia fatta bene. E se qualcuno vi dice che la sua pizza ha 24 ore di lievitazione, non vuol dire che valga meno di chi ne dichiara 48. Perché non è il cronometro a fare la digeribilità .
Ć la conoscenza. Ć il saper dosare il lievito, la farina, il tempo, la temperatura. Ć il non prendere in giro chi mangia, raccontandogli che lāattesa ĆØ sempre una virtù.
A questo punto ĆØ giusto chiedersi: le 48 ore avranno qualcosa di buono?
Certo. Se ben gestite, portano a una maturazione più profonda, ovvero alla degradazione delle proteine, soprattutto delle strutture più tenaci del glutine. Questo rende lāimpasto più scioglievole, più estensibile, più gradevole al morso. In una parola: più appetibile. La pizza risulta più piacevole da mangiare e da āmasticareā.
Questo però non ĆØ lāunico modo per ottenere questi effetti. Anche in una lievitazione breve la maturazione può avvenire, a patto di usare farine meno proteiche, più deboli, che non richiedano giorni per cedere le loro strutture.
Ed è proprio per questo motivo che è sconsigliato usare una Manitoba (tutta la sua storia qui) in una pizza a breve lievitazione: le sue proteine sono troppe, e troppo rigide. Risultato? Una pizza più gommosa, meno estensibile, meno piacevole. Ma non per questo meno digeribile.
DigeribilitĆ e masticabilitĆ non vanno sempre a braccetto. Una pizza può essere scioglievole ma difficile da assimilare, oppure un poā più tenace ma metabolizzata senza problemi. Tutto dipende da come lāimpasto ĆØ stato costruito, fermentato e cotto.
Quindi sƬ, le 48 ore hanno un senso tecnico ā ma non sono lāunica strada. E soprattutto: non confondiamo appetibilitĆ con digeribilitĆ . Una buona pizza può essere entrambe. Basta conoscere gli ingredienti e gestire bene il tempo.
PerchƩ prima ho fatto una distinzione tra Nord e Sud?
PerchĆ© cāĆØ una differenza sostanziale nei contesti, nei climi, nelle attrezzature e soprattutto nelle abitudini operative. Dialogando con colleghi pizzaioli del Sud Italia, emerge con chiarezza un fatto: lāimpasto da pizza, in quelle zone, raramente supera le 24 ore di lievitazione. Anzi, spesso viene impastato al mattino e servito la sera stessa. Ed ĆØ buono, digeribile e appetibile (forse perchĆ© quando mangio la pizza al sud sono in ferie).
Al Nord, invece, sentiamo spesso esaltare la formula delle ā48 ore di lievitazioneā, quasi come fosse un marchio di qualitĆ . Ma da dove nasce questa differenza?
Per capirlo, bisogna tornare a quella famosa āpuntina di lievitoā che molti oggi ostentano come simbolo di panificazione virtuosa. E capire che, in origine, era una scelta tecnica precisa, non una moda.
Quella frase mitica: āne ho messo solo un grammo per tutto lāimpastoā. Una leggenda da banco da lavoro che si ĆØ diffusa a macchia dāolio, soprattutto tra pizzaioli e appassionati, come se fosse una medaglia al valore panificatorio.
Ma tutto ha unāorigine, e questa affonda le radici a Napoli, la culla della pizza.
Negli anni ā70 e ā80, tanti pizzaioli partenopei impastavano a mano, con pochissimi mezzi. Niente impastatrici, niente celle di lievitazione, e soprattutto niente frigoriferi. In più, Napoli non ĆØ certo una cittĆ fredda: il clima ĆØ caldo, spesso oltre i 15°C anche dāinverno, e il forno a legna acceso tutto il giorno trasformava i piccoli locali in vere e proprie serre.
Si impasta al mattino presto, tutto resta a temperatura ambiente, e lāimpasto deve resistere e lievitare lentamente fino alla sera, quando inizia il servizio. Ć chiaro che serviva poco lievito: una puntina, davvero. Altrimenti, lāimpasto sarebbe andato fuori controllo giĆ a metĆ giornata.
Un collega partenopeo mi ha detto testualmente che āmica ho un frigo per tenere tutte queste palline. Poco lievito, le lascio fuori e alla sera se mi va bene le finisco. Quelle che avanzano? Faccio il paneā.
Quindi sƬ: in quel contesto aveva perfettamente senso. Era una scelta tecnica, pratica, funzionale. Un metodo figlio del luogo, del tempo, temperature e delle attrezzature disponibili.
Ma oggi?
Oggi vediamo pizzerie in Italia con celle frigorifere, impastatrici a spirale, abbattitori e termometri a infrarossi, che si vantano ancora della puntina di lievito. Tenendo lāimpasto a 1°C, usando farine super proteiche e poi aspettandosi che lāimpasto lieviti magicamente.
Capite bene che qualcosa non torna. Portare un metodo nato sotto il sole del Sud e applicarlo nelle pizzerie del Nord di oggi, con un altro clima e unāaltra gestione tecnica ĆØ come andare in montagna con le infradito perchĆ© tanto io abito al mare.
Quindi sƬ, onoriamo la puntina di lievito per quello che ĆØ stata: una soluzione intelligente a unāesigenza precisa. Ma non trasformiamola in dogma. PerchĆ© ogni impasto ha il suo clima, il suo tempo, e la sua quantitĆ di lievito giusta.
E allora arriviamo alla questione più concreta e più dibattuta di tutte:
quanto lievito bisogna mettere?
Ne parliamo lunedƬ. Promesso: sarĆ lāultima (e definitiva) tappa del nostro viaggio nel mondo del lievito.
Vedremo insieme come dosarlo in base al tempo, alla temperatura e al risultato che vogliamo ottenere. Perché, alla fine, non è questione di poco o tanto: è questione di equilibrio.
Grazie per il vostro supporto
Che siate lettori affezionati o nuovi arrivati, ogni condivisione, feedback o iscrizione ĆØ un passo in più per custodire e tramandare le tradizioni dellāarte bianca. Avanti tutta e mai demordere.
Ti lascio con questo dato statistico: il 50% dei panifici chiuderĆ entro il 2030. Non possiamo farci niente, lāunica cosa che possiamo fare ĆØ RICORDARE.